IL PAZIENTE E LA FAMIGLIA

 

La Corea di Huntington è una malattia che non si limita a coinvolgere chi ne è affetto, ma investe tutto il suo nucleo famigliare, sia che si tratti di un paziente "a rischio" che di un coreico conclamato. Non è importante, quindi, occuparsi solo del paziente, delle sue esigenze e dei modi in cui si può aiutarlo, ma anche l’atteggiamento e le reazioni della famiglia sono molto importanti. Spesso sono proprio i famigliari a non sapere come comportarsi nelle diverse fasi della malattia, e ancora più spesso il loro ruolo e l’impatto che la malattia ha su di loro e sulle loro vite viene sottovalutato. Abbiamo tentato, qui, di riassumere le quattro fasi della malattia attraversate dal paziente, cercando di dare dei suggerimenti utili ai famigliari, a cui abbiamo dedicato un’ulteriore sezione.

 

Persone asintomatiche che non hanno effettuato il test

 

Come abbiamo già detto in precedenza, la decisione di effettuare o meno il test è molto difficile e va presa senza fretta, valutandone tutti gli aspetti. Il risultato del test, o la scelta di non effettuarlo, influenzerà qualsiasi scelta futura, compresi il matrimonio, il lavoro, la decisione di avere o meno figli.

Quando c’è un malato in casa: la presenza di persone malate nel nucleo famigliare ha un grande peso per gli individui "a rischio". Avendo di fronte a sé un esempio chiaro di cosa potrebbe attenderli, possono avere reazioni contrastanti. Potrebbero "rifiutare" a priori l’eventualità di potersi trovare nelle stesse condizioni del famigliare malato (genitore, fratello/sorella, parente di altro genere), oppure sentirsi spinti a escludere o confermare immediatamente questa ipotesi, eliminando un dubbio con cui non sanno convivere. Non esiste una reazione "giusta" o "sbagliata", è importantissimo che la scelta di fare o non fare il test, della certezza o del dubbio, sia comunque quella che fa star meglio la persona "a rischio".

Diversi atteggiamenti verso la malattia: nell’attesa di prendere la decisione se fare o non fare il test alcune persone "a rischio" si chiudono definitivamente nei confronti della malattia: non vogliono parlarne, reagiscono con fastidio ad accenni fatti da altri, mostrano rancore verso i membri della famiglia che cercano di sollevare l’argomento. Altre persone assumono invece l’atteggiamento opposto, parlandone in continuazione, ponendosi mille domande, facendo congetture di ogni genere sulla possibilità di averla ereditata, su eventuali sintomi ecc. Il famigliare deve in sostanza rispettare l’atteggiamento assunto dalla persona "a rischio", avendo comunque l’avvertenza di arginarlo quando diviene troppo estremo. In poche parole è bene non alimentare l’ossessione per la malattia in coloro che ne parlano sempre, cercando di razionalizzare al massimo le ipotesi fatte, e non eliminare del tutto l’argomento con coloro che rifiutano di parlarne. La cosa più importante è che ci sia comunque chiarezza tra i famigliari, che le cose non vengano dette a metà, che non si assumano atteggiamenti ambigui o innaturali. Più il rapporto tra famigliari e paziente "a rischio" sarà limpido, più sarà loro possibile aiutarsi l’un l’altro.

Atteggiamento dei famigliari: chiaramente, molte persone "a rischio" hanno un atteggiamento più equilibrato nei confronti della malattia e del test, mentre in certi casi sono proprio i famigliari a creare tensione e allarmismi, stando sempre sul "chi vive", osservando la persona "a rischio" alla ricerca di potenziali sintomi. Pur comprendendo lo stato di ansia in cui si trovano, è importante che i famigliari capiscano che ogni forma di stress, ogni tensione superflua, portano al risultato di allontanare i membri della famiglia dalla persona "a rischio", che potrebbe oltretutto interpretare la loro ansia come un "ricatto" per costringerlo a fare il test. Mentre la grande forza che i pazienti "a rischio" e i malati possono avere è data proprio dal rapporto con le persone che amano. Lo stesso discorso vale per il partner e gli amici: andare incontro alle esigenze della persona "a rischio", assecondare le sue necessità e le sue scelte, non cambiare atteggiamento nei suoi confronti e creare un clima di distensione può solo aiutarlo.

Reazioni negative: il dubbio di poter avere ereditato la Corea di Huntington può scatenare nella persona a rischio una forma di rancore verso il famigliare che potrebbe avergliela trasmessa, oppure nei confronti di coloro che, avendo già effettuato il test, sono risultati negativi. Questa reazione è del tutto normale, e si consiglia ai famigliari di non sottolinearla, lasciare che la persona "a rischio" sfoghi la sua rabbia e la sua frustrazione, cercando di rasserenarla gradualmente, non colpevolizzandola a sua volta. Purtroppo le reazioni negative possono non essere solo della persona "a rischio". Parenti, amici, persone vicine, spesso reagiscono alla presenza, supposta o concreta, della malattia, defilandosi, scomparendo, a volte vergognandosi della persona "a rischio" e della malattia, come se fosse una "colpa". E’ inevitabile che prima o poi ci si trovi di fronte a questi atteggiamenti, e l’unico suggerimento che si può dare in questi casi è di accettarli, accantonando ogni desiderio di "recuperare ad ogni costo" il rapporto con queste persone. Chi non riesce a vivere serenamente la presenza della malattia non può far altro che minare la serenità della persona "a rischio" e dei suoi famigliari.

 

Persone asintomatiche risultate positive al test

 

Una volta giunti alla decisione di effettuare il test, sia le persone "a rischio" che i famigliari debbono prepararsi psicologicamente a ricevere entrambi gli esiti possibili, positivo o negativo. La notizia di un esito positivo, per quanto presa in considerazione, è comunque uno shock, che va affrontato insieme, sempre e comunque.

Reazione del paziente: sebbene sappia di non essere attualmente ancora malato, ma solo di aver ereditato la Corea di Huntington, che si svilupperà nel tempo, il paziente riceve comunque un contraccolpo da questa notizia. Molti cadono in una forma di depressione più o meno grave, altri, forse per contrastare un improvviso senso di precarietà, oppure per cercare di "sfruttare al meglio" il tempo che hanno davanti prima che la malattia si sviluppi, diventano iperattivi. Di solito queste reazioni eccessive si riequilibrano gradualmente, ma il ruolo dei famigliari, per stemperare questo improvviso sovraccarico di tensione, può essere fondamentale.

Reazione dei famigliari: di fronte all’esito positivo del test i famigliari devono dare prova di grande coraggio. Nessuno pretende che non provino sentimenti e sensazioni fortissime, che non si facciano prendere dal panico oppure non si sentano in colpa (per esempio, i genitori per aver trasmesso la malattia al figlio, i fratelli per non averla ereditata mentre lui risulta positivo), ma è importante che non manifestino platealmente questi sentimenti in presenza della persona risultata positiva. Non si tratta di fingere, ma semplicemente di non dare al famigliare malato la sensazione di essere causa di dolore e stress per tutti, facendolo sentire colpevole per qualcosa di cui non ha colpa. Anche se è un dato doloroso da mettere in rilievo, diverse persone risultate positive al test sono giunte al suicidio, ed è quindi fondamentale creare per loro un clima il più possibile sereno. Da questo momento in avanti, infatti, i famigliari dovranno sempre tener presente che il peggior nemico della persona risultata positiva è lo stress (che notoriamente accelera la malattia) ed è quindi assolutamente necessario evitargli ogni tipo di tensione superflua. E’ necessario innanzitutto mostrarsi forti, sereni, non cambiare atteggiamento verso il famigliare, non farlo improvvisamente diventare "malato" quando ancora non lo è.

E adesso?: la persona risultata positiva deve ora fare i conti con il futuro. Va sottolineato che chi si ammala oggi, ha moltissime possibilità di sconfiggere la malattia grazie ai risultati della ricerca, e che quindi può mantenere verso il proprio destino un atteggiamento "attendista". Se non sono presenti sintomi che conclamino la malattia, nulla deve necessariamente cambiare nella vita attuale del paziente. E’ inevitabile però che l’esito del test influenzi decisioni cruciali che la persona può prendere in merito al matrimonio (è giusto che il coniuge o futuro coniuge venga messo esattamente al corrente di quale situazione potrebbe trovarsi a fronteggiare, e che sia lasciato libero di scegliere se voler condividere questo destino col paziente o no), ai figli (metterli gradualmente al corrente di quanto accadrà, se ve ne sono; rinunciare ad averne, se ancora non ve ne sono) e alla carriera (alcuni lavori, con la comparsa dei sintomi, non saranno più possibili). Il consiglio è quello di mantenere le abitudini di sempre, di continuare a lavorare e a condurre un’esistenza normale fintanto che la malattia non si manifesti. Sta poi al paziente decidere se comunicare o meno agli amici e ai conoscenti il risultato del test, o se riferire al datore di lavoro la sua attuale situazione. E’ bene che, comunque, cominci a pianificare con le persone più care alcuni aspetti della propria vita futura, in vista, per esempio, delle spese mediche che andranno sostenute, delle difficoltà a cui andrà incontro (per esempio se dovrà smettere di lavorare, di guidare ecc.), del trasloco in una casa a piano terra, senza barriere architettoniche... Una buona organizzazione, graduale e fatta con l’aiuto e il sostegno della famiglia, alleggerirà la situazione difficile che si verrà a creare con la comparsa dei primi sintomi.

 

Persone che presentano sintomi della malattia

(fase iniziale)

 

Reazione alla diagnosi: Ci sono sostanzialmente due situazioni nelle quali il paziente si trova a dover affrontare i primi segnali della Corea di Huntington: l’insorgenza di sintomi in assenza di un test pre-sintomatico e la comparsa degli stessi a conferma di un esito positivo del test. Il primo caso comporta ovviamente una serie di problemi che sono già stati affrontati nel secondo, al momento della conferma (data dal test) della presenza della malattia. Le persone che non si sono sottoposte al test spesso, per paura di ciò che li aspetta, tendono a non voler accettare i sintomi della malattia in quanto tali, arrivando a negare l’evidenza persino quando il neurologo esprime la sua diagnosi. Se i famigliari prevedono una simile reazione, è bene che la diagnosi gli venga comunicata per gradi, rassicurando man mano il paziente affinchè non si chiuda in sé stesso. Se questo avviene ugualmente, non serve a nulla forzarlo, volere costringerlo a tutti i costi ad ammettere di essere malato. Così facendo si scatena tutta la sua diffidenza, suscitando una specie di mania di persecuzione che non lo aiuta e lo sottopone invece a un forte stress. Se questo atteggiamento, come spesso accade, è rivolto soprattutto ai membri della famiglia, un aiuto valido può venire da qualcuno esterno ad essa. Amici, medici (di base o neurologi), assistenti sociali o psicologi possono avere con il paziente un approccio più sereno, proprio perché si tratta di persone "esterne", con un punto di vista "tecnico e pratico", in poche parole persone "non interessate". Questa reazione di rifiuto, perfettamente comprensibile, a volte si protrae a lungo nel tempo, altre svanisce quasi subito, con la piena accettazione del paziente del suo nuovo stato di "malato".

Una nuova vita? "Nuovo stato" non è stato detto a caso: la Corea di Huntington è una malattia dal decorso molto lungo, di svariati anni, quindi dal momento della comparsa dei primi sintomi al momento in cui il paziente diventa non più autosufficiente, trascorre un lasso di tempo della sua esistenza che lentamente si distacca dal "normale". Questa gradualità deve essere sfruttata a vantaggio di una migliore qualità di vita del paziente. Nonostante la Corea di Huntington abbia fatto la sua comparsa, nulla vieta alla persona malata di condurre una vita normale per svariati anni. Non è necessario che abbandoni il lavoro, fintanto che è in grado di svolgerlo, potrà muoversi e spostarsi autonomamente senza aiuto ancora per diverso tempo (sebbene sia consigliabile rinunciare alla guida non appena insorgono le prime difficoltà a concentrarsi), e potrà prendere autonomamente decisioni per sé stesso.

E i famigliari? Anche il ruolo del famigliare cambierà gradualmente, adeguandosi alle varie fasi della malattia, ma assolutamente NON ANTICIPANDOLE. Spesso un eccesso di amore, zelo e iperprotettività dei famigliari fa sì che il malato limiti i propri sforzi per contrastare la malattia. Sebbene la Corea di Huntington sia incurabile, infatti, resta sempre al paziente la possibilità di mantenere allenato il proprio corpo e il proprio cervello. Correre in suo aiuto anche quando non è necessario, sollevarlo da qualsiasi sforzo di essere autonomo, prendere decisioni per lui senza interpellarlo e coinvolgerlo fa sì che si abbandoni più facilmente alla malattia, che non si senta più rispettato e si isoli. Starà alla sensibilità del famigliare capire quando sarà il momento di prendere iniziative anche per il paziente.

 

Cambiamenti: con l’insorgere dei sintomi, ovviamente, il paziente cambia. Ma più che i sintomi fisici, ad avere un’incidenza nei rapporti con i famigliari sono i sintomi psichici. Una certa propensione per l’irritabilità o la depressione, difficoltà ad organizzarsi, perdita di memoria sono sintomi comuni. Va tenuto presente che la malattia colpisce solo alcune regioni del cervello, quindi vengono a mancare al pazienti solo alcune funzioni: per esempio farà fatica a ricordare cose successe a breve termine, mentre manterrà i ricordi di cose avvenute molto tempo fa, sarà in grado di riconoscere gli oggetti ma avrà problemi a metterli il relazione tra loro, non si renderà bene conto della conseguenza delle sue azioni (per esempio spingerà una persone non comprendendo poi perché sia caduta). Per aiutarli si può ricorrere a piccole strategie. Far fare loro una cosa per volta, per esempio, visto che faticano ad organizzarsi (non riescono più a fare le cose in modo da risparmiar tempo o fatica), collegare sempre le cose in maniera logica (non parlare di due avvenimenti conseguenti in maniera separata, ma unirli in un discorso unico), mantenere una certa routine durante la giornata, fatto che dà loro una grande tranquillità. Eliminare tutti gli stress possibili dalla loro vita non significa, però, non stimolarli.

La riabilitazione: come è stato detto più volte, esistono malattie "inguaribili", non "incurabili". Anche i pazienti di Corea di Huntington possono usufruire, al di là dei farmaci, di diverse cure. Logopedisti per migliorare la capacità di parola, la respirazione, la masticazione e la deglutizione, fisiatri per mantenere la tonicità dei muscoli e controllare il più a lungo possibile i movimenti volontari, psicologi per tenere in allenamento il cervello e stimolare la memoria sono alcuni degli esempi. Ci sono molti tipi di massaggio e terapie (idromassaggio, chinesi passiva, linfodrenaggio ecc.) che portano benefici a questi malati, come una giusta dieta, lo stimolo a conservare la capacità di scrivere ed altre cose che i famigliari possono praticare ogni giorno, anche a casa. La frustrazione, come lo stress, è nemica di questi pazienti: dar loro la soddisfazione di poter mantenere il più a lungo possibile le loro capacità è uno degli aiuti più grandi. E bisogna ricordare che non è mai troppo presto per iniziare con queste pratiche: con la comparsa dei primi sintomi è bene iniziare subito a seguire queste attività.

Persone che presentano sintomi della malattia

(fase avanzata)

 

Se il paziente si trova in una fase già avanzata della malattia il ruolo del famigliare che si occupa di lui ventiquattr’ore su ventiquattro (definito in molti testi "caregiver" cioè "colui che si prende cura") è fondamentale. Tutte le pratiche di fisioterapia possono continuare sino alla fase terminale della malattia, ma quelle logopediche e psicologiche diverranno spesso inattuabili. Il paziente, ormai non autosufficiente, andrà nutrito, pulito e cambiato (causa l’incontinenza), seguito ogni singolo minuto della giornata.

Pazienti in casa: l’impegno rappresentato da un malato di Corea di Huntington equivale a un lavoro a tempo pieno, e se a seguirlo è principalmente una sola persona, questa sarà inevitabilmente costretta ad abbandonare ogni attività lavorativa. E’ chiaro che una persona sola non si può occupare pienamente del paziente senza chiedere aiuto, sarebbe improponibile e disumano. Spesso ci si organizza tra vari membri della famiglia, si chiede l’aiuto degli assistenti sociali, dei volontari o di figure professionali. Poter dividere tra più persone il compito di occuparsi di questi malati fa sì che ciascuno riesca a dare loro il meglio, avvertendo meno la fatica e lo stress e riuscendo a ritagliarsi degli spazi per sé stessi. Ricordate che anche in questa fase lo stress è nemico dei pazienti affetti da Corea di Huntington, che loro sono "presenti", riconoscono le persone e sanno apprezzare la gentilezza e l’affetto. Parlare con loro, dedicare il proprio tempo non al "malato" ma alla "persona" li aiuterà più di tutto.

Pazienti ricoverati: talvolta però, per svariati motivi (problemi finanziari, mancanza di persone disposte ad aiutarti, salute precaria del famigliare) ci si trova costretti a ospedalizzare questi malati. Ricorrere alla casa di cura non è mai un gesto di egoismo o di crudeltà, ma spesso è dovuto proprio all’insostenibilità della situazione che si è creata. Il famigliare non deve sentirsi in colpa per essersi trovato costretto a prendere questa decisione, e può comunque continuare ad occuparsi del malato anche non avendolo con sé in casa. Innanzitutto cercando di ricreare nella struttura che lo ospita un ambiente familiare, introducendovi oggetti a cui è affezionato, e poi confortandolo con frequenti visite. L’affetto e la compagnia, la vicinanza delle persone che ama rendono più semplice per il malato abituarsi a questa sua nuova condizione.

 

Cure per i famigliari

Generalmente il peso che maggiormente affligge i famigliari di malati di Corea di Huntington è il senso d’impotenza. Una malattia inguaribile viene spesso vissuta come una condanna senza appello alla quale non si può che rassegnarsi. Invece, come già detto, poiché non esistono malati "incurabili", il famigliare può fare moltissimo per il suo caro. Innanzitutto informandosi sulla malattia ancora prima del suo esordio, essere consapevole e psicologicamente preparato a tutte le fasi che il malato dovrà a attraversare, ai cambiamenti inevitabili e ai disagi, sia psicologici che pratici. Conoscere il proprio "nemico", la malattia, ci rende meno esposti, più sicuri, e di questo beneficia soprattutto il paziente. E’ necessario poi accettare la presenza della malattia nella propria vita. La Corea di Huntington non è una colpa, non è qualcosa di cui vergognarsi, e negare la sua presenza, nasconderla o addirittura nascondere il malato ottengono effetti deleteri per tutti. Il malato prova vergogna e senso di colpa, i famigliari vivono in perenne tensione, i rapporti con gli altri sono ambigui e tutto questo non porta alcun beneficio. Il rapporto con le persone esterne, al di fuori della famiglia, è infatti fondamentale. Molti, è vero, si ritraggono di fronte alla malattia, ma altrettanti dimostrano invece la loro capacità di dare, ed è di questo che pazienti e famigliari hanno più bisogno. CHIEDETE AIUTO!!! In proporzione alle capacità degli altri, ovviamente, ma non abbiate pudore a rivolgervi alle strutture sociali, ai volontari e agli amici. Basta una visita in più, qualcuno che spinga la sedia a rotelle, qualcuno disposto a fare da autista per sollevare il famigliare, alleggerire il peso delle sue responsabilità. E questa consapevolezza deve partire proprio dai famigliari. Una persona perennemente al limite delle proprie forze non può dare al paziente tutto l’aiuto di cui ha bisogno. Non vivete solo in funzione della malattia, ritagliatevi il vostro spazio, anche se piccolo, dedicate tutto il tempo che potete a voi stessi. Basta poco: una passeggiata di mezz’ora, qualche ora in più di sonno, concedersi qualche piccola soddisfazione sono sufficienti per migliorare la qualità della vita dei famigliari, speso vittime di malesseri da stress e disturbi ai muscoli e alle ossa per l’eccessiva tensione. Non pretendete troppo dal vostro fisico e dalla vostra mente e non siate eccessivamente severi con voi stessi.

 

Il problema dei bambini

 

Non è stato sinora trattato l’atteggiamento che è opportuno avere con i bambini presenti in una famiglia con malati di Corea di Huntington. Questo perché, a parte alcune direttive base, è molto difficile stabilire delle regole comuni. I bambini non vanno tenuti all’oscuro della presenza della malattia, ma in che modo vanno informati? Quando è opportuno comunicare loro l’eventualità che si possano a loro volta ammalare? Il consiglio che possiamo dare è che, qualunque strada si scelga di seguire per informare i bambini, la comunicazione dei vari aspetti della malattia sia graduale, per far sì che il bambino la accetti come "naturale", e non come un elemento che irrompe violentemente nella sua vita. Anche per i bambini, poi, la Corea di Huntington deve essere UN elemento della vita, non L’elemento, non deve diventare un’ossessione, il solo perno intorno a cui far ruotare la sua esistenza, anche se esiste l’eventualità che il bambino stesso possa un giorno manifestare i sintomi della malattia. Se non si riesce a gestire la situazione o si hanno troppe incertezze è bene rivolgersi a uno psicologo che, valutando la situazione famigliare, il carattere vostro e del bambino, vi indirizzi nella direzione giusta per affrontare l’argomento.